Viaggio in Sardegna: il racconto di una turista de L'Aquila

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09-11-2016

E allora si consumano i pneumatici, l'automobile mangia terra e sabbia, diventando un irriconoscibile oggetto mobile!

Di: Redazione Sardegna Live

LA MIA SARDEGNA

365 giorni..questi i lunghi giorni che mi separano da LEI, da viaggio a viaggio. Ogni anno l’estate dovrà scorrere in fretta per accogliere, al più presto, SETTEMBRE…quel mese che per me, ormai, significa SARDEGNA!

Il lungo viaggio in traghetto è il mio dormiveglia, un momento di sospensione finchè, alle prime luci dell’alba o allo spuntare della luna, riesco a scorgere- nonostante la miopia- la sagoma di Tavolara che, imponente, sembra aspettarmi con impazienza e salutarmi…in quell’attimo mi si gonfia il cuore e mi abbandono al mio SOGNO. Sogno che da qualche anno è diventato nostro, perché la meraviglia è ancora più bella in due.

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Non so spiegarmi la natura o l’intensità di questo legame con l’isola anche se, velatamente ed in sordina, ha sempre fatto parte della mia vita.

La Sardegna trovava spazio nei racconti di mio nonno, Gavino Sanna per antonomasia, che parlava spesso di questa terra lontana dalla quale, per motivi di lavoro, si era dovuto separare troppo presto e alla quale desiderava tornare…un giorno! Una terra bellissima ed affascinante, quasi magica; una terra difficile, spesso arida; una terra…mal d’amore!

Nei suoi occhi la passione, la nostalgia, la speranza..

Il primo viaggio non si fece attendere e così, anno dopo anno e sempre nel mese di settembre, mi ritrovavo a solcare il mare per raggiungerla, ancora inconsapevole, ancora ingenua ma, sicuramente, tanto felice.

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I miei ricordi parlano di gente con nomi strani: Mimmìa, Cecita che io vedevo così diversi da noi, nella fisionomia e negli atteggiamenti, con quel dialetto vivace e ricco di intonazioni e sfumature, di cui non capivo nemmeno una parola, ma che mi incuriosiva a tal punto da lasciarmi spesso attonita ed estasiata nei lunghi discorsi che allietavano la tavola, quella dei malloreddus al pomodoro fresco, che sapeva del caldo sole della campagna..o del sanguinaccio in quella pentola che bolliva e ribolliva per ore.. o della lasagna di pane carasau ai funghi e del profumo di maialino appena cotto…o di quella formetta dai vermetti saltellanti che zio Giovannino tirava inaspettatamente fuori e che diventava subito il

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pezzo forte della serata: il casu marzu.

Erano questi gli anni dell’infanzia, della prima adolescenza. Gli anni di Alghero e del suo fascino, dei suoi viottoli acciottolati e dei suoi negozietti ammalianti, della torre e dei cannoni, dei bicchierini di vermentino in una vecchia osteria del centro, del pesce al porto…

Gli anni di Thiesi, della mia famiglia completa, allargata dagli emozionanti e tanto attesi ritorni e dai nuovi arrivi, della zia con il suo inseparabile vestito nero, delle giornate passate in campagna, tra uva da mangiare e fichi da assaporare, maialini e pecore da rincorrere. Gli anni della mia infatuazione per la Sardegna….raffreddata presto dall’inesorabile ingresso nel vortice dell’adolescenza.

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Quei viaggi in “famiglia allargata” cominciavano ad annoiarmi, preferendo la compagnia degli amici in spiagge sovraffollate e discoteche stroboscopiche.

L’isola continuava a rivelarsi parzialmente attraverso i racconti e le foto dei miei familiari o le telefonate “verso il continente”.

Tanti i viaggi, in preda a quell’euforia incontenibile e indomabile di scoprire il mondo…rara, però, quell’emozione pura, una lacrima di gioia o un respiro strozzato.

Finchè, non ricordo esattamente quando e come quella sagoma, ormai vista solo in cartina, si è ripresentata con prepotenza nella mia mente e, soprattutto, nei miei desideri. Forse per via di una fotografia o di un&rsqu

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