Da Ovodda alla Giordania, la missione di don Vito Vacca

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24-02-2015

«Il paese di Smakieh è cristiano, ma circondato da un ambiente musulmano. Dalla mia casa vedo le tende dei beduini. Quando torno in visita a Ovodda, dove tutto è verde e il bosco fitto ricopre i monti, mi rendo conto di essere in un altro mondo»: inizia così il racconto di don Vito Vacca, sacerdote di origini sarde, da sette anni in Terra Santa, prima a Genin, una roccaforte della resistenza palestinese, poi nel distretto del Karak, in Giordania, un'area desertica di biblica memoria, dove i rapporti personali sono regolati da leggi tribali.

Di: Redazione Sardegna Live

«Il paese di Smakieh è cristiano, ma circondato da un ambiente musulmano. Dalla mia casa vedo le tende dei beduini. Quando torno in visita a Ovodda, dove tutto è verde e il bosco fitto ricopre i monti, mi rendo conto di essere in un altro mondo»: inizia così il racconto di don Vito Vacca, sacerdote di origini sarde, da sette anni in Terra Santa, prima a Genin, una roccaforte della resistenza palestinese, poi nel distretto del Karak, in Giordania, un'area desertica di biblica memoria, dove i rapporti personali sono regolati da leggi tribali.

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Qui, in uno spicchio di mondo che sembra cristallizzato in un eterno presente, si può sentire il respiro esalato da un popolo che deve fare i conti tutti i giorni con le forme di una socialità interstiziale. Tra paesaggi aridi e deserti rocciosi si staccano, come figure scolpite nel legno, gli allevatori di capre e gli artigiani, quell'«umanità di resistenti», con cui don Vito si interfaccia quotidianamente.

Una storia, la sua, di impegno e di dedizione verso il prossimo, iniziata tanti anni fa come sacerdote fidei donum della diocesi di Roma e proseguita in Palestina e in Giordania, dove nel 2012 è stato nominato parroco del villaggio di Smakieh: una piccola comunità di milleduecento cristiani di rito latino. Suoi «vicini di casa», come scherzosamente li chiama, sono i membri delle tribù beduine, residenti nelle tipiche tende realizzate con lana di pecora o di cammello.

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Tra le molteplici attività curate da don Vito spicca il sostegno in favore dei profughi siriani, in collaborazione con diverse strutture, come l'Our Lady of Peace Centre di Amman: un centro specializzato nelle cure ai disabili destinato ai cristiani e ai musulmani giordani, da qualche anno aperto anche ai bambini profughi con analoghe patologie.

Don Vito si impegna in prima persona nel fornire materassi, coperte, vestiario, giocattoli, e, in seno alla sua parrocchia, sono nate attività ricreative e sportive per i bambini. Sì, perché sono loro gli sfortunati appartenenti a una generazione che rischia di essere spazzata via da una guerra di cui non si conosce la fine, tanto è implacabile la sete di violenza che ha cannibalizzato le teste dei rivoltosi, costringendo milioni di abitanti alla fuga.

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Duecento chilometri più a nord rispetto alla regione del Karak si estende il campo profughi di Zaatari, il secondo più grande al mondo. Un luogo nel quale i colori appaiono indistinguibili. Bisogna andare a cercarli nei pertugi, nelle pieghe di una distesa sconfinata di tende bianche, su una terra che non sembra neanche desertica, ma addirittura lunare. Qui si mescolano le storie di chi ha dovuto barattare i propri occhi, lasciati lì a piangere gli affetti scomparsi, con un plotone di fantasmi pronto ad aprire il fuoco a suon di kalashnikov. Storie di persone che si commuovono nell'osservare il verde che si intravede all'orizzonte, prima di entrare nel campo profughi, perché quel verde appartiene alla Siria, distante da questa realtà giordana solo dodici chilometri.

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Storie di famiglie che anelano un futuro migliore per i propri figli, nonostante le gravi problematiche cui devono far fronte. È lo stesso don Vito a raccontarcelo: «Nel campo di Zaatari dilagano i furti e il vandalismo, oltre agli scontri con le forze dell'ordine. E sul fronte dell'istruzione non va meglio: a volte le scuole sono finanziate e gestite solo da Al Qaeda».

In seguito ai recenti sviluppi, si teme un'escalation di violenza, anche se, come precisa don Vito, nella regione del Karak si respira un clima di cauto ottimismo, poiché vige un rapporto di reciproco rispetto tra le tribù musulmane e quelle cristiane. Un contesto ben diverso da quello che ha vissuto personalmente alla fine degli anni '70 durante l'offensiva del fondamentalismo islamico guidato dall'Ayatollah Khomeini: «In quel periodo abitavo in Iran e mi ricordo sempre di come, guidando l'auto, in prossimità dei tanti checkpoint dei rivoluzionari, si dovesse suonare il clacson scandendo in modo da accompagnare le parole morte allo Shah , e io, che non volevo la morte di nessuno, suonavo ritmando

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