Pastori e pecorai? Orgogliosamente!

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22 gen 2018

Ai tifosi milanisti che ieri allo stadio pensavano di offenderci vorrei ricordare che i nostri pastori sono stati alla base del nostro etnos, del nostro universo culturale, artistico e rituale

Di: Francesco Casula - Getty Images

Ai tifosi milanisti che ieri allo stadio pensavano di offenderci chiamandoci pastori e pecorai, - se non fossero minchie piene d'acqua, falli pieni di petrolio, olotuarie piene di catrame, e dunque assolutamente non in grado di capire - vorrei ricordare che i nostri pastori, sono stati alla base del nostro etnos, del nostro universo culturale, artistico e rituale.

Ad iniziare dall’immaginario simbolico rappresentato – fra l’altro -dalle maschere di carnevale; dall’immaginario musicale rappresentato soprattutto dal Canto a tenore, riconosciuto dall'Unesco, nel 2004, come patrimonio immateriale dell'Umanità.

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Ma c’è altro ancora: sottesi al nostro pastoralismo vi sono codici e valori che storicamente hanno segnato e impregnato la civiltà sarda e con essa, la nostra letteratura, con un Premio Nobel come Grazia Deledda.


Un patrimonio secolare –scrive l’antropologo Bachisio Bandinu, gran conoscitore delle cose sarde – che dall’età dei nuraghi, ha prodotto una cultura, un simbolo, una scuola di vita, un modo di essere, praticamente scomparso in Europa, che perdura ancora oggi, in Sardegna, pur nella sua forma attuale di civiltà... Non come semplice revival etnologico-folklorico, come museo di tradizioni popolari, operazione di nostalgia o folklorizzazione turistica ma, pur attingendo a lingua e linguaggi, atteggiamenti e comportamenti, interessi e valori, riti e simboli del passato, pone la questione di un rapporto positivo tra locale e globale e si interroga se questa civiltà secolare sia capace di inserirsi nel processo di mondializzazione, elaborando alcuni caratteri distintivi della propria cultura per adattarsi alla nuove esigenze della contemporaneità.

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Senza la pastorizia - lo vorrei ricordare in questo caso soprattutto ai sardi tutti - la Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.


Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.


Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata.

Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti.

Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile, prima ancora che economica e sociale.

Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo.

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