Oniferi. Sos Maimones e su ballu de sa Vargja

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27 gen 2022

"Su ballu de sa vargja" prende il nome da un ragno la cui puntura provocava brividi, svenimenti, convulsioni. La terapia per salvare l’individuo consisteva in un vero e proprio ballo apotropaico con il quale veniva scacciato lo spirito maligno

Di: Pietro Lavena

Oniferi è uno dei centri dell’isola che meglio ha conservato la tradizione del canto a tenore, dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’umanità. Conta poco meno di 900 abitanti e il suo territorio è particolarmente ricco di siti archeologici di epoca pre-nuragica e nuragica.

Le celebrazioni del carnevale oniferese iniziano il 16 gennaio, in occasione della festa di Sant’Antonio. Numerosi falò vengono accesi per le vie del paese dove si canta e si balla in onore del santo.

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Protagonisti di questi eventi sono le maschere tradizionali: sos Maimones. Prima divinità e poi demone dell’acqua, su Maimone veniva invocato come colui che porta la pioggia in processioni magico-rituali di molti paesi della Sardegna. Il nome Maimone, infatti, deriva probabilmente da ”Maym”, che in lingua punica significava “acqua”.

In tanti, ad Oniferi, ricordano alcune strofe rivolte a questo Dio diventato poi maschera tradizionale:

Maimone Maimone

aba cheret su labore

aba cheret su siccau

Maimone laudau

Scomparso da Oniferi alla fine degli anni ‘50, questa maschera è stata riproposta nel 1996 dal Centro Culturale “Domenico Argiolas” che ne cura la preparazione, i costumi e le esibizioni, nel rispetto della tradizione.

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Gli uomini mascherati nascondono i lineamenti del viso con la fuliggine per renderlo irriconoscibile. La figura maschile indossa il tipico abito del pastore sardo in velluto scuro e camicia bianca col colletto alla coreana, gambali e scarponi di pelle e su bonette (il berretto di velluto). Sopra la giacca viene indossato su saccu ‘e furesi (il mantello d’orbace con cappuccio), su gabbanu (il pastrano in orbace) o sas peddes (le pelli di pecora o montone).

La figura femminile, interpretata comunque da uomini, indossa oltre all’abbigliamento maschile scialli, su vreseddu (mantello in orbace privo di cappuccio), gonne e su muccadore nigheddu (fazzoletto da donna) legato sul berretto.

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Una volta accesi i falò, le maschere fanno il giro del paese portando un fantoccio che rappresenta il contadino in groppa a un somaro, talvolta mascherato con delle corna. Il viso del fantoccio è costituito da una foglia di fico assicurata a una damigiana o a un bidone di latte ricoperto da su saccu. Sos Maimones vanno di casa in casa agghindando il fantoccio con collane di cathas (frittelle di carnevale), riempiendo sas bertulas (le bisacce) di dolci carnevaleschi offerti dalle famiglie a cui fanno visita mentre la damigiana che funge da corpo del fantoccio viene piano piano riempita di vino. Il cibo e il vino raccolti vengono consumati nella piazza principale dall’intera comunità in festa mentre si balla e si canta a tenore.

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Nel corso del rito carnevalesco, sos Maimones rappresentano situazioni quali la morte e il lutto al fine di ridicolizzarle e scongiurarle.

Particolarmente spettacolari sono le scene di:

  • sa parthi burra, lite tra marito e moglie che arrivano alla divisione de sa burra (coperta matrimoniale) simbolo del legame coniugale.
  • s’ammuttu, pianto funebre delle ammutadoras (le prefiche) che esaltano ironicamente vizi e virtù del morto-maimone che potrà resuscitare solo grazie a unu cicchette de vinu (un bicchiere di vino). Un omaggio al dio Bacco-Dionisio, in uno stordimento generale che dalla morte porta alla rinascita:

    “Piango chin dolore,

    conosco su mortore

    e lu naro a sa zente:

    su binu e s’abbardente!”

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  • sos bullettes de sa fortuna, una sorta di lotteria improvvisata nel corso della quale i biglietti vengono estratti da un contenitore di sughero e si augura in rima a chi li estrae ogni tipo di futuro.

Da qualche anno, all’esibizione di sos Maimones, si affianca Su ballu de sa vargja, dal nome di un ragno la cui puntura provocava brividi di freddo, svenimenti, convulsioni e malessere. La terapia che veniva praticata per liberare l’individuo consisteva in un vero e proprio rituale, il ballo apotropaico, con il quale veniva scacciato lo spirito maligno. Ad Oniferi ad effettuare il ballo erano le vedove, in numero dispari, che venivano convocate nella casa dell’ammalato ed, insieme al ballo, improvvisavano versi esorcizzanti. Il malcapitato si opponeva tenacemente all’effetto della terapia fino a cedere alla forza del rito.

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Il rito è stato riproposto dal gruppo Sos Maimones con l’obiettivo di non perdere quella parte della cultura relativa alle credenze negli spiriti e negli esseri negativi che tuttavia la forza dell’unità poteva scongiurare. Sono stati recuperati anche alcuni versi, diretti forse all’ultimo vargjato, che indicano la forza della volontà di averla vinta sull’insetto malefico:

E sa va’ e sa va’ e sa vargja e sa vargja

E ma’ e ma’ e maleita sias

E poi’ e poi’ e poite l’as mossau

A Ba’ a Ba’ a Badoreddu Brau.

A balla’ a balla’ a ballare a sa vargja

Sa chi at’ sa chi at’ sa chi a’ puntu a Badore

E ma’ e ma’ e maleita siat

Chi li car’ chi li car’ chi li carmet su dolore!

Lu cherimus lu cherimus sanau

Lu cherimus lu cherimus sanau

A Badoreddu , a Badoreddu Brau

A Badoreddu, a Badoreddu Brau

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