Coronavirus. Caligaris (Sdr): “Sistema sardo in sofferenza per operatori, detenuti e familiari”

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19-03-2020

Svariati i problemi presenti nelle carceri anche prima del Covid-19

Di: Redazione Sardegna Live

Maria Grazia Caligaris, socia fondatrice associazione onlus “Socialismo diritti riforme” fa un quadro della situazione attuale delle carceri sarde. Secondo la donna i tanti problemi, presenti anche prima dell’emergenza Coronavirus, vano risolti quanto prima.

La lettera integrale dell'ex presidente Sdr:

“Il provvedimento con cui il Governo è intervenuto per alleviare la presenza dei detenuti nelle carceri, con l’intento di dare una risposta all’emergenza Covid-19, non risolverà la condizione di grave sofferenza in cui si trova anche il sistema penitenziario in Sardegna. È un primo passo ma non sufficiente. Occorre ampliare il ricorso alle pene alternative e promuovere una mini amnistia o un indulto”, scrive la Caligaris.

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“Nella nostra isola al problema del sovraffollamento in alcuni Istituti (Oristano-Massama, Cagliari-Uta e Sassari-Bancali) si aggiungono le carenze ‘storiche’ che il Ministero della Giustizia e il Dap non hanno mai seriamente affrontato e risolto. La costruzione di quattro nuove strutture penitenziarie ha paradossalmente complicato la realtà isolana dove sono aumentati i detenuti in alta e massima sicurezza e la carenza di personale (direttori, agenti, educatori e amministrativi). E’ inadeguata l’organizzazione sanitaria, deficitaria sotto il profilo dell’efficienza. Aspetti che rendono difficile tenere insieme esigenze diverse nel rispetto dei diritti di tutti.

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Senza parlare della Magistratura di Sorveglianza che necessita di numeri decisamente più importanti per rendere il ricorso alle pene alternative più snello ed efficace.


Non si può fare a meno di considerare che se nelle carceri isolane non si sono verificati atti inconsulti lo si deve al senso di responsabilità delle persone private della libertà e dei loro familiari ma ha avuto un ruolo determinante il personale. In queste settimane dell’imperativo “restare a casa” abbiamo sperimentato, almeno in parte, che cosa significa vivere con limiti alla libertà. Da cittadini responsabili abbiamo rinunciato a uscire di casa se non per necessità. Molti hanno sofferto a tal punto questa condizione da non riuscire a portarla a termine completamente. Hanno frequentato le edicole o il market o la farmacia più di una volta, senza neanche l’urgenza. Hanno avuto al loro fianco moglie o marito, figli, nipoti. Hanno avuto moment di socialità attraverso il computer o il cellulare. Imporre restrizioni a chi vive una condizione limitata, violando così anche le norme vigenti che permettono ai detenuti di vedere almeno i propri familiari (principio peraltro fondamentale per il reintegro sociale e per mantenere relazioni con i figli) oppure i volontari ha creato non pochi problemi a Direttori e Comandanti di Reparto. Ha imposto agli Agenti e agli Educatori un surplus di lavoro costringendoli, in un momento della loro vita condizionato da una grave emergenza sanitaria, a fare leva quasi solo sull’arma della comunicazione.

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Non è stato facile spiegare perché, condividere lo scopo delle nuove più rigide limitazioni palesando un fine comune per il rispetto della vita di tutti. Tutto questo è stato fatto, anche con il contributo dei Cappellani, durante le ultime tre settimane costruendo un nuovo modo per stare insieme in una realtà chiusa. A questo equilibrio delicato e sempre instabile ha contribuito il personale sanitario in grande difficoltà. Tutti, anche i volontari, aspettano un ulteriore provvedimento del Ministro Bonafede che con senso di responsabilità, senza il condizionamento degli insensati allarmi per la libertà a vantaggio di violentatori, pedofili e assassini, assuma una decisione in grado di incidere più opportunamente per alleviare una situazione che, forse non si è ancora capito, è molto delicata.

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Non basta riconfermare un dispositivo di legge esistente (199/2010), come ha fatto. Non basta garantire l’uscita dal carcere a chi deve scontare ancora 18 mesi. Serve coraggio e determinazione per consentire a chi sta concludendo il percorso detentivo di andare a casa, seppure in detenzione domiciliare. Una mini amnistia e/o un indulto sarebbero l’ideale, anche perché la situazione dei Tribunali non è facile. Il Ministro non aspetti oltre intervenga affinché la salute di tutti sia salvaguardata in condizioni di vita in cui l’igiene sia davvero garantita ed esclusa o almeno controllata la promiscuità”. 

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