“Io, soccorritrice del 118 ai tempi del Covid-19: il momento peggiore? La notte, quando si concentrano tutti i sentimenti di un’intera giornata”

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31-03-2020

Ha 43 anni, indossa ogni giorno la divisa e lavora per il 118

Di: Alessandro Congia

“Togli il pigiama metti la divisa, togli la divisa metti il pigiama.
Non è importante il mio nome, sono una soccorritrice, una di quelle persone che ogni giorno indossa quella bella divisa arancione che in alcuni casi può essere anche gialla o celeste”.

Davanti al taccuino del cronista mostra un velato sorriso, che in sé è ‘impastato’ tra stanchezza, paura, stress, stati d’animo mischiati all’adrenalina che si ha in corpo, comune un pò a chiunque, soprattutto in questo periodo emergenziale, svolge questo delicatissimo ed importante lavoro. Gli ospedali li conosce tutti, dal Santissima Trinità, Brotzu, Marino o Policlinico, giusto per citarne alcuni, lei ha con un cuore grande, un pizzico di coraggio in più e vestita in arancione.

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Non le chiediamo ripetutamente il nome volutamente, preferisce non apparire con nome e cognome perché non vogliono definirsi ne eroi e forse nemmeno guerrieri, ma persone che addosso hanno un gravoso carico di responsabilità: “Sono le 6 del mattino, è ora di alzarsi: togliamo il pigiama e mettiamo la divisa. Questi scudi – dice la 43enne cagliaritana - che quotidianamente indossiamo ne hanno visto di tutti i colori, ma ci sta, siamo preparati all'emergenza. Viviamo di schemi e azioni da compiere e lo facciamo bene. Ci hanno formato. Questa volta, pero’, non è cosi, non siamo preparati.
La paura ci accompagna dall'inizio alla fine dell'intervento e sopratutto al termine ci troviamo a ripercorrere mentalmente tutte le fasi cercando di capire se sia stato fatto tutto giusto nella speranza di non essere stati contagiati.

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I momenti in sede in attesa delle chiamate non sono più gli stessi. Dobbiamo mantenere le distanze e indossare sempre le mascherine che sono snervanti, non si respira bene, sembra manchi l'aria. Allora stiamo zitti. Qualcosa è cambiato lo dicono gli sguardi. Che non sono più quelli di qualche settimana fa.
Parte fondamentale la fanno i messaggi che ci scambiamo tra noi soccorritori, dove ci si spoglia un poò delle paure che condividiamo e, forse, sono i più veri che abbia mai letto. Per non parlare dei messaggi che riceviamo dalla famiglia e dagli amici – dice la donna - sono la carica. Finito il turno si torna a casa, iniziamo a svestirci prima di entrare, fuori gli scarponi e dritti verso la doccia. Togliamo divisa e mettiamo pigiama. Siamo di nuovo al sicuro ma soli.
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Molti di noi si sono allontanati dalle famiglie per proteggerli. Un collega proprio oggi mi ha scritto di aver insegnato alla madre come medicarsi da sola: prima se ne occupava lui. Io non vedo il mio bambino da tre settimane, il silenzio a casa mia è assordante. Anche l'ordine sta iniziando a darmi fastidio.
Sai qual è il momento peggiore? La notte – dice la soccorritrice - prima di dormire. È qui che si concentrano tutti i sentimenti, nostalgia della famiglia paura e consapevolezza. Ma sono di nuovo le 6, è ora di alzarsi. Ora di togliere il pigiama e di mettersi la divisa e di raggiungere i miei colleghi grazie ai quali non sarebbe possibile reggere: grazie a Stefania, Chiara, Manuela, Bruno, Monica, Massimiliano, Gege, Saverio, Valentina e tanti tanti altri".

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