“Sa Dottoressa, l’ho sognata”. Il bellissimo ricordo della dottoressa Maria Cristina Deidda di una donna malata di tumore al seno

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05-11-2019

Da tanti anni sul fronte per curare malati che soffrono patologie gravi. La dottoressa Deidda è in forza al San Giovanni di Dio, Azienda Ospedaliera Universitaria di Cagliari

Di: Alessandro Congia

Un bellissimo ricordo di una paziente malata di tumore al seno, un gesto speciale raccontato dalla dottoressa Maria Cristina Deidda, medico oncologo e specialista presso l’Ospedale San Giovanni di Dio al Day service di cure antalgiche e palliative del dolore, che il nostro giornale pubblica come monito a chi ogni giorno combatte gravi patologie e non s’arrende. Proprio come loro, i medici in prima linea. (A.C.)

"Dalla scatola dei miei ricordi di giovane specializzanda in oncologia - dice la dottoressa Deidda - ho recuperato una delle tante radici del mio essere Palliativista: vedere il paziente, oltre la malattia, e comunicare nel sentire che sempre accompagna l'empatia. Il mio profondo Grazie - dice - a tutti i miei pazienti, per tutto il "sentire" di questi lunghi anni".

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"Sa, Dottoressa, l'ho sognata...

Questo mese spetta a me controllare giornalmente le condizioni cliniche dei nostri pazienti oncologici ricoverati nelle chirurgie o in rianimazione.
Arrivo pertanto di primo mattino, compio “Il mio giro” nei reparti, appena in tempo per riunirmi alle otto con tutta l’equipe per la discussione dei casi clinici. Entro nella rianimazione; qui dentro provo sempre una sensazione di inadeguatezza, di non appartenenza. Cammino con passi muti e guardinghi, e guardo affascinata quel mondo silenzioso, ovattato, ove anche il dolore pare confinato lontano. Eccoti, ti spio dalla vetrata, entro nella camera dove tu sembri riposare profondamente. Quasi non ti riconosco. Appari indifesa e fragile, così offerta alle altrui mani e cure. Non sei una mia paziente; egualmente ho avuto modo di occuparmi di te, durante la somministrazione delle chemioterapie, qualche visita intermedia. Controllo la tua cartella, le condizioni sono stabili ma sempre gravi: sottoposta a un delicato intervento chirurgico al cervello per asportare una metastasi, non ti sei risvegliata. Tu sei distesa su di un alto letto, abbracciata da fili e tubi che spiano e frugano ogni pensiero del tuo corpo. A guardarti sembri un’infante, sazia di latte misto ai baci materni, così arresa al tuo sonno ignaro di ogni affanno. Ti sfioro il braccio. Il mio compito è concluso: tornerò domani. Il domani si tinge ancora e ancora di oggi. Ormai di prima mattina arrivo sempre un po’ prima: per parlarti, sentirti attraverso la densa nebbia del tuo sonno.

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Tu, le palpebre ostinatamente chiuse, non rispondi. Guardo la spessa medicazione che protegge pudicamente dagli sguardi, la ferita del tuo capo. La sfioro piano con le dita fino a scendere sulla tenera curva della guancia ritornata infantile e mi soffermo, un istante, sulla delicata fossetta del tuo labbro superiore. Laddove il tuo angelo, alla nascita, ha impresso l’indice per tacitare i tuoi ricordi e rendere muta la tua mente, io egualmente impongo ora il mio dito con la speranza irrazionale di compiere il processo inverso.

Mi risponde il silenzio. Tu, imperterrita, dormi. Ora vado. A domani.
Oggi sono arrivata presto, mi potrò trattenere qualche attimo più del solito.
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Ti osservo attentamente nella fatica di scorgere nei tuoi tratti, quelli ormai sfuocati di qualche settimana prima.
Ricordo molto bene le mie sensazioni (certo prive di distacco e poco professionali) alle tue prime visite. La mia incredulità dinnanzi alla malattia della tua mammella così mostruosamente estesa ed ulcerata da deturpare il tuo corpo: “Come può una donna colta ed intelligente nascondere ai propri cari e a se stessa una simile devastazione?” La mia rabbia dinnanzi al tuo sguardo, in apparenza pigro e vagante per la stanza, che accompagnava poche laconiche parole (“Non volevo guardarmi, pensavo così sarebbe scomparso, prima o poi…”). Certo non capivo il tuo dolore, il tuo terrore, infine la tua profonda ed infinita solitudine. Curioso, come solo adesso che le tue labbra non emettono alcun suono, io possa sentire il tuo grido di aiuto e sofferenza. Non avverto più quella sciocca, sterile rabbia nei tuoi confronti; forse solo verso me stessa e la mia incapacità di guardare oltre l’apparenza.
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Pressata dall’urgenza di colmare quella distanza che la mia superbia ha lasciato si creasse fra noi, ti parlo ancora e ancora, quasi a scusarmi; ti porgo i miei pensieri che copiosi sbocciano, prima che dalla mia mente, fra le mie labbra. Infine, svuotata di ogni altra sensazione, mi accomiato da te, serena.
L’appuntamento di primo mattino con te, è divenuto un momento gioioso, ove esternarti pensieri di speranza, sprone alla vita, richiamo del tuo spirito intelligente fra di noi. Noi che attendiamo. Ancora.
Stamani sono arrivata in ritardo. Non ti vedo da giorni. Affretto nervosamente il mio passo in quel breve corridoio che porta alla tua stanza. Affondo i miei occhi nella pallida luce. Non sei più nel letto.
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Questo è impietosamente vuoto. Un sensazione di desolazione si aggrappa improvvisa al mio stomaco, la mia gola. “È stato tutto inutile, penso, troppo tardi”. La frustrazione per avere perso la possibilità di farti sentire una persona capita, considerata, è per me schiacciante.
“Sono sicura, non rimanderò mai più le opportunità di oggi al domani, le vivrò come chi non ha più tempo”, mi urlo nella mente.
Ma ora si è fatto tardi; tornerò nuovamente per parlare con i colleghi, vedere la tua cartella.
Con questo stato d’animo mi avvio all’ascensore. Attendo impaziente. Una voce mi chiama; e mentre il mio corpo con irritazione si volta al richiamo, i miei occhi sono già stati rapiti dalla tua immagine.
Pallida, emaciata, sembri perderti fra le braccia della sedia a rotelle che ti culla. L’infermiera che ti accompagna mi sorride orgogliosa.
Tu mi guardi come mai prima d’ora, mi porgi la mano e con un sorriso che ti arriva finalmente agli occhi, mi sussurri: “Sa, Dottoressa, l’ho sognata…”.

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