Quel pomeriggio a Montecampione eravamo tutti incollati davanti alla tv

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26 mag 2018

Il 25 maggio 2014 il primo trionfo di Fabio Aru, ora aspettiamo il suo ritorno

Di: Pietro Lavena

Quel pomeriggio a Montecampione eravamo tutti incollati davanti alla tv. Non credevamo ai nostri occhi. Un sardo che vinceva al Giro.

Si chiamava Fabio Aru. Aveva 23 anni, la maglia celeste, il sorriso spaesato di un ragazzino e in pochi, allora, lo conoscevano.

Era il 25 maggio del 2014 e, sulla “montagna Pantani” di quella edizione della Corsa Rosa, i tifosi italiani sentirono battere il cuore un po' più forte. Stava nascendo una stella, e ancora il meglio doveva venire.

All’arrivo finale di Trieste, Fabio Aru, salì sul podio splendido terzo. La Sardegna, allora, scoprì la gioia di tifare un suo ciclista mentre l’Italia si preparava a coccolare un nuovo talento da incitare sulle salite delle grandi corse a tappe.

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Il Giro dell’anno successivo andò ancora meglio. Dopo la crisi sul Mortirolo, arrivarono le vittorie a Cervinia e sul Sestriere. La maglia, in quelle occasioni, era quella bianca di miglior giovane della competizione. E mentre la stampa titolava “SpettacolAru”, i tifosi avevano coniato un soprannome: il Cavaliere dei Quattro Mori. A Milano, il Cavaliere dei Quattro Mori, salì sul secondo gradino del podio.

Il 13 settembre del 2015, lo scalatore sardo arrivava a Madrid in maglia rossa: era l’ultimo atto della Vuelta di Spagna. In Plaza de Cibeles, sull’asta più alta sventolava il tricolore.

Dopo un buon 2016, il 2017 fece brillare ancor di più la stella Aru. Il campionato italiano vinto a giugno a Ivrea fu il miglior biglietto da visita per presentarsi al Tour de France. Il 5 luglio, a 2,4 km dalla Planche des Belles Filles, partì da solo vincendo per distacco. Otto giorni più tardi scattò in faccia agli avversari sui Pirenei vestendo a Peyragudes, per la prima volta, la gloriosa maglia gialla. La perse presto, sulle rampe del Galibier e dell’Izoard, terminando la Grande Boucle in quinta posizione a Parigi.

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Il resto è storia dei nostri giorni. Il Giro 101, che si avvia verso Roma fra sorprese e conferme, è un brutto incubo da dimenticare. L’Etna e Montevergine, lo Zoncolan e l’ascesa verso Sappada hanno sfibrato i muscoli, consumato le energie, annebbiato la mente e per affrontare il Colle delle Finestre non c’erano più risorse. Aru, ieri, ha lasciato la bici a metà strada della 19^ tappa di una corsa che gli ha fatto vivere i giorni più duri della sua carriera. Bandiera bianca. Ritiro.

In mezzo a tutto questo, fra trionfi e sconfitte, fra braccia al cielo e gambe che non girano, l’umiltà di un atleta che non ha mai dimenticato di ringraziare per i successi ottenuti. La famiglia, i compagni di squadra, gli amici, i tifosi. Non sono mai mancate per loro parole che, dopo centinaia di chilometri divorati pedalando, potevano essere soffocate dalla fatica, o dal diritto legittimo di rivendicare un’impresa personale, da quell’umanissimo senso di orgoglio che poteva affiorare per la propria condizione, per i propri numeri, per le proprie qualità. Mai. Aru al traguardo ha sempre detto “grazie”.

E in quei successi costruiti col sudore, dove non era forse bello da vedere, con la bocca spalancata dal dolore, era esaltante partecipare a quel contorcersi sui pedali per guadagnare metri. Ecco, in quei successi, domani, potrà ritrovare sé stesso. Ne ha bisogno lui, ne abbiamo bisogno noi. Perché quando vince uno di noi vinciamo tutti, è la bellezza dello sport.

Fermati un attimo, Fabieddu. Ti aspettiamo un po’ più avanti. Lassù, dove piace a te e dove piaci a noi.

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